Intelligenza artificiale generativa di Terza Generazione: riflessioni critiche tra Sport, eSport ed etica algoritmica
- Emanuela Mirella De Leo
- 7 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 4 giorni fa

Di Emanuela M. de Leo - Segretario generale OINP
L’intelligenza artificiale generativa (Generative AI), giunta alla sua cosiddetta “terza generazione”, non è più uno strumento al servizio dell’automazione ma una vera infrastruttura cognitiva capace di apprendere, rielaborare e generare contenuti originali, linguaggi, immagini, strategie, emozioni simulate. Le sue applicazioni si stanno espandendo con una velocità che non lascia il tempo alla riflessione pubblica di assorbirne le implicazioni. E d’altronde, in ambienti di ricerca e sviluppo (sia pubblici che privati), si parla già di intelligenze artificiali cognitive, o anche di modelli multi-agente neurale (MAS) e IA ibrida, tanto da correre il rischio che il presente contributo possa già risultare “obsoleto” rispetto alle recenti nuove realtà in via di definizione, ancora prive di etichette ufficiali come “prima, seconda o terza generazione”, ma di fatto già esistenti.
Lo sport e gli eSports, in quanto campi in cui si misurano corpo, mente e competizione, diventano un osservatorio privilegiato. Ma anche una trincea: quella dove si combatte una partita decisiva tra sviluppo tecnologico, interessi economici, logiche di controllo e istanze etiche.
L’uso dell’IA generativa nello sport professionistico è già oggi tangibile. Sistemi di analisi predittiva migliorano il rendimento degli atleti, suggeriscono strategie ottimali e prevengono infortuni elaborando miliardi di dati biometrici in tempo reale. La terza generazione dell’IA non si limita a leggere dati, ma addirittura li “immagina”: elabora scenari possibili, simula partite intere, genera contenuti di allenamento adattivi, costruisce modelli mentali e biomeccanici del comportamento umano.
Ma, per fare un esempio pratico, quando una squadra si affida a un sistema per decidere chi deve tirare il rigore decisivo, chi ha ancora il controllo del gioco? Il rischio di una delega cognitiva, di un affidamento cieco alle macchine, è concreto. Sta nascendo una nuova forma di “atleticità”? Un “corpo algoritmico”, dove la performance (e non più l’atleta–persona) è al centro, non solo potenziata ma anche decisa da un’intelligenza esterna?
Nel mondo degli eSports, già nativamente digitale, l’IA generativa di terza generazione sta ridefinendo il confine tra player e sistema. Gli assistenti IA non solo suggeriscono strategie durante le partite, ma possono addirittura imparare lo stile del giocatore e replicarlo. Nei titoli multiplayer competitivi, ciò apre a scenari distopici: avatar mossi da IA indistinguibili da umani, competizioni truccate, decisioni arbitrali automatizzate.
Già oggi, nei tornei di alto livello, alcuni algoritmi vengono impiegati per identificare cheating e comportamenti sospetti (doping cognitivo, manipolazione degli input, uso di script avanzati). Machi controlla questi algoritmi? E cosa accade quando a imbrogliare non è un umano, ma l’IA stessa, addestrata da un sistema corrotto?
L’uso di IA in contesti così competitivi impone una riflessione su cosa significhi oggi “etica”.
Il teologo Paolo Benanti ha coniato il termine algoretica per descrivere l’etica che deve accompagnare l’azione degli algoritmi nelle scelte che toccano diritti, libertà, integrità. Non è un’etica dell’intenzione, perché l’algoritmo non ha coscienza, ma un’etica della progettazione e dell’impatto.
Chi decide quali dati deve vedere un algoritmo? Chi scrive il codice che determina il comportamento corretto in campo o davanti a un match point digitale? E soprattutto: in un sistema dove l’algoritmo può apprendere, cambiare e mutare, chi garantisce la trasparenza del processo decisionale?
A questa opacità si somma il rischio di una algocrazia: un inquietante ancorché efficace neologismo che descrive una società in cui le decisioni cruciali sono prese non da persone ma da sistemi. Quando i risultati sportivi, i contratti degli atleti, la validità delle partite o delle competizioni sono delegati a IA, l’umano viene spinto ai margini. Il gioco non è più umano, ma tecnicamente corretto.
In un futuro non lontano, che forse è già presente, gli assistenti IA personali potrebbero diventare parte integrante dell’allenamento sportivo individuale, come un “coach fantasma” capace di leggere il battito cardiaco, monitorare l’affaticamento, suggerire tecniche personalizzate e strategie in tempo reale. Potrebbero essere sviluppati atleti virtuali, addestrati su modelli umani reali, in grado di simulare performance perfette, utili per l’allenamento o addirittura per sfide ibride.
Ma dove si ferma il gioco e inizia l’illusione? Si è già di fronte a un paradigma in cui lo sport stesso viene ridefinito attraverso realtà aumentata, IA generativa, esperienze immersive e scenari adattivi. In questo contesto, l’identità dell’atleta e la nozione di competizione diventano fluide.
L’ambiente attuale ci presenta uno scenario in cui l’intelligenza artificiale generativa di terza generazione non è solo una tecnologia. È un attore nuovo che entra in campo, capace di alterare regole, tempi, percezioni. Nel mondo dello sport e degli eSports, questa presenza diventa centrale e pone interrogativi profondi: chi siamo quando non decidiamo più? Che valore ha la competizione se la mente che vince non è umana?
Il rischio più grande, forse, non è che le IA giochino meglio di noi. Ma che noi si smetta di voler giocare. E’ inquietante pensare a un futuro con l’IA in campo, e l’umano in panchina.