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Il tramonto (annunciato) dei Giochi Olimpici degli Esports

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    Redazione
  • 6 ore fa
  • Tempo di lettura: 4 min
esport

di Emanuela M. De Leo


La notizia è arrivata quasi in sordina, ma nel mondo dello sport e del diritto sportivo ha avuto l’effetto di una scossa. Il Comitato Olimpico Internazionale e il Comitato Olimpico e Paralimpico dell’Arabia Saudita hanno annunciato la fine della loro cooperazione per i Giochi Olimpici degli Esports. Un epilogo improvviso solo per chi non aveva seguito da vicino le dinamiche che stavano maturando da mesi.


La tempistica non è casuale: l’annuncio è giunto a poche ore dalla chiusura dell’IF Forum 2025 di Losanna, appuntamento annuale dove si incontrano i vertici delle federazioni internazionali, i comitati olimpici e i rappresentanti dell’industria sportiva. E proprio lì, tra panel su governance e sostenibilità, si percepiva un’aria di tensione. Nei corridoi e nelle conversazioni informali, la sensazione diffusa era che qualcosa si fosse incrinato nel rapporto tra il CIO e il suo partner saudita.


Da tempo lo si intuiva, e per chi si occupa di diritto degli esport era più che un sospetto. Le premesse giuridiche dell’accordo apparivano fragili sin dal principio. Quando nel luglio 2024 il CIO aveva firmato con Riyadh un’intesa di dodici anni per ospitare la prima edizione dei Giochi Olimpici degli Esports, l’annuncio era stato accolto con curiosità, ma anche con perplessità. Si trattava di una mossa ambiziosa, parte integrante del piano “Vision 2030” del principe ereditario Mohammed bin Salman, che punta a trasformare l’Arabia Saudita in un hub globale dello sport e dell’intrattenimento.


Dietro la retorica della modernità e dell’apertura, però, si celavano contraddizioni sostanziali. Gli esport sono un fenomeno economico e culturale fondato su proprietà intellettuale privata: ogni titolo è controllato da un publisher, che ne decide regole, format, diritti audiovisivi e tempi di utilizzo. È un sistema chiuso, regolato da contratti, non da norme universali. Il mondo olimpico, al contrario, si basa su principi di autonomia, neutralità, universalità e non discriminazione. Due modelli giuridici, prima ancora che sportivi, destinati a scontrarsi.


Nel diritto sportivo tradizionale, l’autonomia delle federazioni è bilanciata da un ordinamento sovranazionale che garantisce coerenza, tutela degli atleti e rispetto dei valori fondativi del movimento olimpico. Negli esport, tutto questo manca. Non esiste un’autorità internazionale riconosciuta, non esiste un sistema di tutele paragonabile al Codice mondiale antidoping o alle norme sul fair play finanziario. L’idea di collocare un fenomeno così frammentato all’interno del perimetro olimpico avrebbe richiesto un ripensamento profondo, non un semplice accordo di ospitalità.Il CIO, con l’intesa saudita, ha tentato un esperimento istituzionale senza precedenti: tradurre in linguaggio olimpico una realtà che non parla la stessa lingua. Il risultato era destinato a incrinarsi. Il rinvio della prima edizione, prevista per il 2025 e poi spostata al 2027, fu il primo segnale di un equilibrio instabile. Si discuteva sui titoli ammissibili, sui criteri di selezione, sulla governance del comitato organizzatore e sulla necessità di escludere i giochi con contenuti violenti o bellici, come Call of Duty e Street Fighter, che pure dominano la scena competitiva mondiale.


Durante l’IF Forum, tra un dibattito sulla sostenibilità e una tavola rotonda sull’innovazione, il tema era già oggetto di commenti discreti. La sensazione diffusa era che il CIO stesse ripensando la propria strategia, forse consapevole che l’accordo con Riyadh rischiava di compromettere più la sua immagine che di rafforzarla. L’associazione tra i valori olimpici e un contesto come quello saudita – pur economicamente determinante – sollevava interrogativi sulla coerenza etica e sul rischio di sportswashing.


Quando, il 30 ottobre, è arrivato il comunicato ufficiale che annunciava la fine della collaborazione “di comune accordo”, la sorpresa è stata minima. Il CIO ha parlato di un “nuovo approccio” da sviluppare per i Giochi Olimpici degli Esports, ma la formula diplomatica non nasconde l’evidenza: il progetto, così com’era stato concepito, non poteva funzionare.


Dal punto di vista giuridico, la ragione è semplice. Non si può creare una manifestazione olimpica in un ambito in cui non esiste un ordinamento sportivo riconosciuto. Gli esport non hanno un codice uniforme, non hanno federazioni sovranazionali, non hanno un’autorità di vigilanza indipendente. Ogni publisher rappresenta un micro-ordinamento chiuso, con proprie regole di condotta e meccanismi sanzionatori. In queste condizioni, la trasposizione dei principi olimpici – uguaglianza, lealtà, fair play – resta un esercizio teorico.


Per l’Arabia Saudita, l’effetto è soprattutto reputazionale. Il Paese continuerà a ospitare la Esports World Cup, che raccoglie i titoli più seguiti e remunerativi, ma perde la legittimazione istituzionale che il marchio olimpico avrebbe potuto garantire. La cancellazione dell’accordo segna un passo indietro per il programma Vision 2030, che aveva investito sull’immagine di un Paese all’avanguardia nella digitalizzazione dello sport.


Per il CIO, invece, è un momento di ridefinizione. La decisione di sciogliere la partnership non rappresenta una resa, ma una presa d’atto: la costruzione di un’Olimpiade digitale richiede basi giuridiche più solide, un modello multilaterale e un dialogo più autentico con gli attori del settore. Servirà un equilibrio tra innovazione tecnologica e principio di universalità, tra diritti di proprietà privata e accesso pubblico, tra spettacolo e valori educativi.


Era prevedibile che sarebbe finita così. Lo si leggeva nei segnali: nei rinvii, nelle difficoltà di governance, nelle parole misurate dei vertici olimpici durante il Forum. La verità è che l’entusiasmo iniziale aveva oscurato la sostanza: non si può fondare un’istituzione olimpica su un terreno dominato da interessi commerciali e privi di un ordinamento sportivo condiviso.Il futuro dei Giochi Olimpici degli Esports, ora, passa da una scelta di metodo. Non si tratta di rinunciare all’idea, ma di darle una base giuridica coerente, capace di conciliare la dimensione digitale con quella etica e regolatoria. Se il CIO saprà costruire un quadro normativo internazionale, indipendente dai singoli publisher e ispirato ai principi di trasparenza e parità, allora questa battuta d’arresto sarà solo una tappa necessaria.


Fino ad allora, la rottura con l’Arabia Saudita resta un monito: l’innovazione, nello sport come nel diritto, non può essere imposta per via contrattuale. Va costruita, con tempo, con metodo e con equilibrio.E chi, in questi anni, aveva osservato con cautela l’accordo saudita, sapeva già che questa sarebbe stata la conclusione più probabile.

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