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Oltre l’hype: il caso GTA VI e la fragilità giuridica dell’industria videoludica

  • Immagine del redattore: Emanuela Mirella De Leo
    Emanuela Mirella De Leo
  • 10 nov
  • Tempo di lettura: 4 min
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di Avv. Emanuela M. De Leo


Il rinvio di Grand Theft Auto VI (GTA VI) non è soltanto una notizia d’intrattenimento. È il riflesso di un disequilibrio profondo che attraversa l’intero ecosistema del gaming, una delle industrie più redditizie e meno regolamentate del pianeta. Dietro l’annuncio di Rockstar Games, che ha spostato l’uscita del titolo al 19 novembre 2026 dopo un nuovo slittamento, si cela molto più di una semplice decisione commerciale. È un segnale giuridico e sociale che racconta un settore cresciuto più in fretta della sua capacità di darsi regole.


L’azienda ha motivato il rinvio con l’esigenza di garantire la qualità del prodotto, ma la scelta ha avuto immediate ripercussioni finanziarie e organizzative. Le azioni della controllante Take-Two Interactive sono scese sensibilmente in Borsa e, quasi in parallelo, sono emerse notizie di oltre trenta licenziamenti nel Regno Unito e in Canada. Il sindacato IWGB ha denunciato che i provvedimenti abbiano colpito dipendenti impegnati in attività sindacali; la società ha replicato che si tratta di misure legate alla divulgazione d’informazioni riservate. Non esiste un nesso provato fra i due eventi, ma la loro concomitanza ha riaperto un interrogativo cruciale: quanto è sostenibile, sul piano umano e giuridico, il modello industriale del gaming contemporaneo?


A differenza di cinema e spettacolo, lo sviluppo videoludico non dispone di un quadro contrattuale unitario ni vari Paesi del mondo (Europa e Usa compresi). Programmatori, designer, grafici e tester vengono inquadrati in modo frammentario: talvolta come lavoratori autonomi, talvolta come dipendenti precari o collaboratori occasionali. Questa disomogeneità produce una zona grigia in cui la tutela dei diritti fondamentali resta affidata alla sensibilità aziendale. Il fenomeno del cosiddetto crunch time – settimane di straordinari obbligatori alla vigilia dei lanci – è divenuto quasi strutturale e pone evidenti problemi rispetto alla normativa europea sull’orario di lavoro. Il diritto, semplicemente, non è mai arrivato a presidiare questa frontiera.


Il caso Rockstar dimostra come la governance economica delle major, in assenza di regole trasparenti, possa incidere direttamente sulla vita dei lavoratori senza doverne rendere conto. Un rinvio strategico, deciso per motivi di marketing o di borsa, può avere effetti immediati sull’occupazione, sui contratti temporanei, sul benessere di centinaia di persone. Da un punto di vista giuridico, la questione riguarda la responsabilità datoriale in un contesto transnazionale e l’eventuale obbligo, per progetti di valore miliardario, di effettuare una valutazione preventiva dell’impatto sociale delle decisioni aziendali. È lo stesso principio che l’Unione europea tenta di introdurre con la Corporate Sustainability Due Diligence Directive del 2024: l’idea che la sostenibilità non sia solo ambientale, ma anche occupazionale e organizzativa.


Anche il diritto sindacale è messo alla prova. Se i licenziamenti dovessero risultare legati a iniziative di rappresentanza, saremmo davanti a una violazione della libertà di associazione riconosciuta dalle convenzioni OIL e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Ma, anche in assenza di prove, il messaggio che passa è chiaro: organizzarsi è rischioso. In ambienti digitalizzati e globali, dove le sedi operative sono sparse e la catena di comando è virtuale, la protezione dei diritti collettivi diventa un labirinto giurisdizionale. Il lavoratore remoto, connesso a una piattaforma di gestione interna, difficilmente può accedere a tutele pensate per modelli novecenteschi di fabbrica o ufficio.


Il punto è che l’intero sistema del gaming si regge su una fragile asimmetria: il potere economico delle major, che controllano proprietà intellettuali, piattaforme distributive e risorse finanziarie, si confronta con una forza lavoro iper-specializzata ma priva di strumenti collettivi di difesa. Da un lato la creatività, dall’altro la finanza. Tra i due, un vuoto di regole. Eppure il diritto del lavoro, il diritto commerciale e quello della concorrenza hanno già gli strumenti per intervenire, se solo si volesse adattarli a questo contesto.


Il tema non è ideologico, ma sistemico. Se la qualità del prodotto dipende dalla qualità del lavoro che lo genera, allora la sostenibilità del gaming passa inevitabilmente attraverso la tutela dei suoi lavoratori. La promessa di “polish over haste”, di rifinitura sopra la fretta, appare retorica se l’efficienza è garantita a costo di precarietà, licenziamenti o carichi di lavoro insostenibili. Senza un equilibrio, l’intero modello rischia di implodere: le produzioni diventano sempre più lunghe, i costi crescono, la pressione sugli investitori aumenta e i team creativi diventano sacrificabili.


Da un punto di vista giuridico giurista, è quindi auspicabile che il futuro del settore passi per un nuovo patto di responsabilità. Occorre introdurre forme di contrattazione di settore,

condizionare i benefici fiscali alla presenza di pratiche sostenibili e prevedere meccanismi di trasparenza quando le scelte aziendali incidono su centinaia di lavoratori. Occorre, soprattutto, riconoscere che lo sviluppo di un videogioco non è solo un processo tecnico, ma una forma di produzione culturale che coinvolge esseri umani e richiede diritti adeguati.


Il caso GTA 6 è più che un episodio di cronaca. È un monito che attraversa le giurisdizioni e interroga il diritto su come intendere il lavoro nell’era digitale. Finché le grandi case continueranno a operare in uno spazio di autoregolazione quasi assoluta, il rischio è che il gaming diventi vittima del proprio successo: un’economia colossale incapace di garantire equilibrio interno.


Regolare non significa frenare l’innovazione; significa darle durata. E forse proprio da qui, da un rinvio e da una protesta, può nascere il tempo maturo per un vero diritto del gaming.

 
 
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